Ho da poco finito di leggere Un altro mare di Claudio Magris. Una lettura fatta quasi tutta sul tram – come mi succede spesso da qualche anno a questa parte. Leggere sul tram un libro come quello di Magris è un’esperienza particolare perché si tratta di un libro in cui l’importanza delle parole, del costrutto, è vitale e soffermarsi su alcuni passaggi, rileggerli più volte sarebbe buona norma. Tutto ciò, sul serpentone verde che mi porta da casa al lavoro, non sempre – o quasi mai – è possibile. Provo comunque a fare il punto adesso. A mente quasi fredda, forte di alcuni appunti presi un po’ al volo scribacchiando qua e là tra le pagine del libro (cosa che a Enrico Mreule, protagonista del romanzo, sarebbe molto piaciuta).
Per trama e altre amenità (importa davvero che Enrico e Carlo siano realmente esisti?), rimando a qua e qua e a molto altro che potete tranquillamente trovare da soli come ad esempio questo e quest’altro.

Cosa mi ha affascinato di questo romanzo?
La narrazione è assente, o meglio, è quasi cronaca che si apre in squarci lirici. Di solito per me questo è un difetto (ed è strano che io ami Consolo, Bufalino e via dicendo).
Inizialmente la scrittura di Magris l’ho persa. Questo libretto andrebbe letto lentamente, con pazienza, ma tempo e voglia un po’ latitavano nei 30 minuti di tram alle 7.30 del mattino e la lettura era intervallata da telefonate, messaggi etc etc.
Forse è la fuga di Enrico? La sua singolarità? Il suo essere un “eroe” perché differente, singolare, strano? Il mio riconoscerlo simile e in qualche modo identificarlo con uno dei miei più cari amici?
E Carlo? Il sodale di Enrico che sceglie di togliersi la vita? Anche in lui c’è qualcosa che ritrovo nel mio amico?
Forse è l’amicizia giovanile e l’afflato intellettuale? Quella comunanza di sentire a cui aspiravo da ragazzo e che oggi mi appare così lontana se non – addirittura – ridicola nel mio essere incastrato tra gli ingranaggi del mondo editoriale e gli affanni, e le gioie, della vita di tutti i giorni?
Forse il punto è sempre lo stesso: sfuggire a una vita meccanica, costruirne una a propria immagine (un’immagine che potrebbe essere solo nelle nostre menti, in fondo credo che la vita che abbiamo è quella che ci rispecchia meglio). Enrico lo ha fatto, Carlo pure – in modo estremo e nichilista.
Forse è il racconto della giovinezza, dei suoi colpi di coda tra le maglie della vita: Enrico e Carlo non si dimenano, ne scivolano fuori ciascuno a modo suo.
E infine, si tratta forse del gioco che Magris svela nella passione di Enrico e Carlo per i classici greci: la letteratura e le arti in genere (né tantomeno la filosofia) non salvano nessuno che non abbia già in sé la forza per salvarsi.